La semplicità ha un prezzo

La semplicità piace. Troppo. È pulita, silenziosa, levigata come il vetro di uno smartphone nuovo. Non graffia, non disturba, non ci chiede nulla. Ci accoglie come un assistente gentile: sorridente, immediato, efficiente. Un’idea perfetta… se non fosse che non è nostra.

Perché dietro ogni scorciatoia c’è un sentiero che non abbiamo scelto. Dietro ogni clic, un algoritmo che ha già deciso cosa vedremo, cosa leggeremo, cosa penseremo. E forse, anche chi saremo.

La modernità digitale ha confezionato per noi una vita user-friendly. Siamo passati da “cercare” a “trovare”, da “decidere” a “scegliere tra opzioni”, da “pensare” a “scorrere”. Ma cosa resta di noi quando tutto il resto è stato già deciso?

Non viviamo più nella complessità esplicita dei tempi passati, dove la lentezza imponeva riflessione, l’errore insegnava pazienza e le decisioni avevano un peso. Oggi tutto è fluido, gestito, anticipato. Siamo accompagnati – più spesso trascinati – lungo flussi progettati con cura da altri. Il nostro compito? Non inciampare, non chiedere, non deviare.

Siamo al cospetto di una semplicità industriale, costruita come un prodotto da consumare. Un’estetica che promette libertà ma offre solo comfort. Che ci convince di essere protagonisti mentre ci spinge silenziosamente verso scelte ottimizzate. Ma ottimizzate per chi?

Dietro la promessa della semplicità si cela un grande patto non scritto: in cambio della fatica di pensare, vi regaliamo la pace. Ma è una pace anestetica, dove il pensiero critico si assottiglia, l’identità si adatta e il desiderio si confonde con la raccomandazione algoritmica. È la nuova legge della parsimonia cognitiva: meno sforzo, più dipendenza.

Eppure, qualcosa si muove. Una noia sottile si insinua nei nostri gesti automatici. Una dissonanza, una stanchezza che non nasce dalla fatica, ma dall’assenza di attrito. Il cervello umano, progettato per risolvere problemi, non tollera a lungo la perfezione passiva. Prima o poi, si ribella.

Chiudiamo le notifiche, riapriamo un libro cartaceo, spegniamo il GPS e sbagliamo strada di proposito. Non perché siamo romantici, ma perché abbiamo bisogno di perderci. Di tornare a scegliere davvero, non tra due pulsanti ma tra due possibilità. Abbiamo bisogno di ritrovare la complessità non come ostacolo, ma come forma di libertà.

Perché, vivere davvero è disegnare il proprio percorso, anche sbagliando. È restare svegli nella notte del dubbio, non affidarci al sonno artificiale della semplificazione. Più la vita è gestita, meno è vissuta. E noi non siamo nati per essere gestiti.

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