Vi presento il mio Petrocchi, un vocabolario del 1929. Mi ha accompagnato durante le scuole medie e le superiori e gli devo molto. Anche quando una portaerei della Garzanti veniva ormeggiata sul mio banco, c’era sempre questo piccolo veliero della parola, che le navigava accanto.
É importante perché mentre con un vocabolario super aggiornato trovavo delle perfette definizioni scientifiche, con lui dovevo destreggiarmi tra parole desuete e definizioni inattese. Un vocabolario molto legato all’etimo, all’origine, al senso più profondo di ciascuna parola. Così, buona parte delle ore del tema, era dedicato a cercar parole che mi piacessero.
Giocavo con il vocabolario.
È vero che, avendo trovato nel compagno di banco (il lanciatore di sedie, n.d.a.) un compare di malefatte, scommettevamo a ogni tema un pacchetto di patatine del bar scolastico. Chi fosse riuscito a infilare una parola impropria nel tema e non farselo segnare, avrebbe vinto. Fummo in pareggio per molti anni, quando ci arenammo su un termine che proveniva dal Petrocchi e che finiva sottolineato sempre in blu: imperciocché.
Imperciocché è un casino, diciamolo.
Piazzalo mo te, se sei capace!
Trascorremmo sei mesi senza che si vedesse l’ombra di una patatina fritta (che tra l’altro mangiavamo di nascosto durante le altre lezioni… Sai in prima fila, chi ti guarda mai.)
Poi la Prof di Italiano cedette, e regalò a Miki un segno rosso, dicendomi davanti a tutti: «E pagagli ‘ste patatine, così la smettete di tormentarmi con parole del vocabolario che non sapete usare!».
Fu la stessa a entrare in aula dopo ricreazione e dichiarare davanti a tutti: «Giuliano, sei tornato dalla malattia, stai meglio? Mi sembra che stia molto meglio, considerato come ti baciavi con quella di prima A in fondo al corridoio!»
E la stessa a farmi capire che l’amicizia prevede tonate nei denti. «O le prendi in considerazione da subito, o avrai vita difficile.»
La stessa a tenere il mio compito di italiano per ultimo da correggere «che almeno mi diverto un po’.»
A entrare un giorno in aula dicendo: «Ecco le tracce per tutti, tu Giuliano non scrivere. Per te ci sono quattro titoli del tema a scelta. Ma tutti di letteratura. Questa volta non te la caverai con le solite perifrasi, questa volta devi dimostrare di conoscere l’argomento.»
O a sequestrare la mia agenda durante l’ora di Dante: «Giuliano ha una visione di Beatrice piuttosto alternativa a quella di Dante: l’ha disegnata nuda!»
La stessa a dirmi: «dovresti scrivere.»
La stessa a spronarmi sempre. Sempre e comunque.
Grazie Professoressa Marano. Grazie. Sarai sempre con me, sempre nel mio cuore.
E grazie piccolo vocabolario del 1929. Ancora qui. Ancora sulla mia scrivania.