Capodanno mi è sempre stato antipatico. Dopo aver affrontato tristi festini adolescenziali, trenini che istigavano all’autolesionismo, abbuffate che nemmeno Lucullo (due elle e non è sardo), ho finalmente optato per la ricerca interiore. Detta così sembra che passi la mezzanotte in autodiagnosi stile Moliere, mentre da diversi anni cerco di raggiungere gli amici di Ananda sui colli di Assisi e salutare il vecchio anno verso il nuovo tra letture, meditazione, suoni di gong e Gayatri Mantra.
Perché la beatitudine e la leggerezza che vivo lì, ha avuto rari momenti comparabili, tra cui il calore umano che emanavano le mie fanciulle quando da bimbe si addormentavano sul padre cuscino.
L’unico vero augurio che mi sento di fare a tutti noi, è di ricordarci come la felicità derivi da emozioni esterne e la contentezza sia qualcosa che nasce dentro, permane e potrà essere sempre presente. Siate contenti, che di essere felici avremo sempre occasione.
Ecco. Fatto.
Se invece apparteneste alla categoria «troppo difficile, Giuliano, parla come mangi», non avendo idea di leggere uno che trovi il miglio rilassante e le verze afrodisiache, ho scritto un componimento di assoluta levatura letteraria, direi agli apici della poesia aulica contemporanea:
Anno maldestro,
Anno funesto.
Anno balzano,
Anno disumano.
Anno distanziante,
Anno incostante.
Anno restante
mettiti da parte.
Anno nuovo
sii un nuovo anno.
Eh? Mica bagigi!
Abbiate cura di voi.