Quasi come Bering

Se cavalchi le interminabili praterie della steppa, prima o poi arriverai alla fine.
Nella mia testa quella fine si chiama Kamčatka ed è stata inventata dalla Editrice Giochi.
Le prime battaglie avvennero in famiglia, tra consanguinei. Mio cugino fu in grado di sfogare tutta la sua energia e forza e rabbia attraverso quei maledetti dadi rossi. Non faceva prigionieri, il ragazzo: voleva dominare il Mondo con bordate da tre dadi, tre sei.
Conosceva i territori a menadito, le forze in campo erano frutto di un calcolo sopraffino. Giocavamo a Risiko, nella sua testa erano scacchi.
Fu poi il turno delle battaglie tra gli amici della via. Avevano un modo molto suggestivo per farti capire che avevi eliminato delle armate: martello e tenaglie. Davanti a tre dadi, tre uno, davano delle martellate improvvise sul tavolo del garage, roba che ti ritrovavi con una collezione di chips di plastica al posto dei carri armati.
Arrivò infine la triade dei fab four: Miki, Marco e Ale. Quelli con cui si andava a dormire “L’ultimo imperatore” nei cinema in velluto, si seguivano auto bianche a caso e si condividevano elucubrazioni fino alle 4 del mattino. Con loro fu guerra vera, quella psicologica. Non contavano gli obiettivi, contava confondere l’avversario. Essere confusi apre sempre uno scenario e non significa per forza cambiare strategia di vita. Serve. La confusione è utile ad aprire la mente.
La Kamčatka.
Un giorno lessi la biografia di Vitus Jonassen Bering, per gli amici Ivan, un capitano di vascello della Marina imperiale russa. Sì, leggevo libri a caso. In compenso conoscevo bene Dylan Dog, più che altro per le battute sceme di Groucho.
Bering aveva un compito nella vita: scoprire se Asia e Americhe fossero collegati. Era il ‘700 e lo zar era Pietro il Grande, non Pipino il Breve. Si scherzava mica. Difficile svegliarsi una mattina con un compito di vita. Di solito ci si alza con una sveglia che suona, un caffè troppo lontano dal braccio e una lista di cose da fare. Lui no, lui era un danese con poche paure in testa e aveva un compito nella vita.
Bering ricorda un po’ l’Hervé Joncour di Baricco. Partiva da San Pietroburgo, attraversava la steppa a cavallo, perdeva compagni di viaggio per strada, raggiungeva Ochotsk, dove con dei velieri raggiungeva la penisola della Kamčatka. Lì, proseguiva con altre navi e altri compagni di viaggio da perdere, per trovare le coste dell’America.
La prima volta gli andò male. Non la vide, ma lo compensarono lo stesso.
La seconda volta andò meglio, ma perse uomini e salute.
La terza volta rimase nella sua testa. Un sogno, un pensiero e niente più.
La notizia fu comunque portata a destinazione. Ormai Pietro non c’era da un pezzo e pare che all’imperatrice Anna tutto sommato non fregasse un granché.
Asia e America non erano collegate.
Quando lessi questa storia mi misi nei panni di Bering, una vita dedicata, nella convinzione di un sogno non realizzato. Così scrissi l’unica musica dotata di spartiti decenti. Avevo ventiquattro anni, una bionda dolcissima accanto e mi facevo suggestionare dalla biografia dei grandi personaggi. Quelli meno famosi. Oggi guardo noi in queste giornate plumbee, dentro e fuori le nostre abitazioni. Che si abbia dodici, ventiquattro, quarantotto o ottantaquattro anni, siamo tutti alla ricerca di un nostro compito di vita. Come Vitus Bering nella sua ricerca non ossessiva di un capitano di vascello, cerchiamo un senso nelle cose. Che vada oltre l’obiettivo che la nostra carta del Risiko ci ha assegnato, che vada oltre il dichiarato, oltre le aspettative. E nessuno potrà darcelo. Al limite qualcuno sarà utile a risvegliarne in noi il fuoco che lo alimenti. Ma il senso delle cose, il compito nella vita è roba nostra. Unica, indiscutibile e profonda.
Il tutto nella consapevolezza che, trattandosi di una partita a dadi, non dipenda solo da noi.

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