A vent’anni scrivevo canzoni. Sai che roba, a vent’anni tutti si credevano come minimo de André. Quasi tutti… Giravano certi metallari col chiodo e la faccia da cattivi. Col gel, ma cattivi. Io ero più tra Guccini, Vecchioni e giù di lì, quindi scrivevo testi così impegnati, ma così impegnati, che non li capivo. Poi un giorno registro una demo… Insomma, una demo di fil di ferro e spago, un nastro con cui, tramite l’amica di un amico dell’Università, amante di un batterista, lei, non lui, ho un appuntamento per un provino con un cantautore che chiameremo Mister X.
Mister X mi vuole incontrare dopo un concerto, in una città della Lombardia. Sta tornando in auto da uno in Puglia (in Puglia? Ha paura di volare). Mi dicono «fatti trovare fuori dal teatro due ore prima del concerto, così ti presentiamo».
Eseguo. Puntuale. Ho occasione di conoscere: Project Manager, Tour Manager, e un terzo Manager che non capisco cosa dica: non parla, bofonchia.
Ci sono con me: una fan che indossa solo una pelliccia (a suo dire e non mente), dotata di mazzo di fiori.
Romanticona.
Una ex fidanzata da tour. Un gruppo di groupie che cinguetta e ridacchia. Un tizio grande e grosso, stile gorilla di montagna, che mi si affianca ogni tanto per mollarmi una pacca sulla spalla, dicendo: «tra poco arriva, arriva».
Pare che il teatro non sia poi così grande dietro le quinte, quindi dopo poco, tutti fuori ad aspettarlo. È inverno, fa un freddo becco e c’è quella nebbiolina tipica di quelle parti che ogni tanto mi volto a cercare Sherlock Holmes.
Non c’è. Nemmeno Mister X.
È in ritardo. Serio ritardo. La triade di Manager ricorda molto quello di Pinocchio, come si chiamava? Ah, Mangiafoco. Mi invitano a andare con loro in una enorme Mercedes. Viene anche la tipa con pelliccia e fiori, mentre il Tour Manager scaccia in malo modo la ex fidanzata da tour, dicendole chiaramente che Mister X ne ha una nuova per quest’anno.
Ma non era sposato?
Cucciolissimo me, scrivevo canzoni, io.
Mi siedo dietro, in mezzo tra pelliccia sfiorita e l’energumeno che bofonchia. Inizia un giro di tiri di coca che nemmeno alla festa di Johnny Stecchino. «No, grazie. Son già lisergico di mio». Ringrazio e passo. Sono allegri adesso, tutti tranne la pelliccia dai fiori stanchi, che ha sempre più caldo.
Ormai c’è quell’atmosfera nell’aria e forse non solo quella, per cui inizio a intervistarli. A chiedere com’è la loro vita, cosa fanno, come si sentono. Mi raccontano tutto, di loro, di Mister X, del popolo che vi ruota intorno. Tirano e se la tirano come non mai.
Diventa emblematica la frase di uno di loro: «Non uso mai due volte lo stesso cesso.»
Passano le ore, Mister X dovrà salire sul palco quando arriva.
Ho una intuizione. È un attimo.
Chiedo di scendere. La pelliccia si spelliccia proponendomi di farle compagnia. Ho vent’anni, lei quaranta molto abbondanti. «No grazie, ho già visto Il Laureato e finisce male». Ringrazio e passo.
In quello arriva Mister X.
Sono gli anni ’90 e il mondo dello spettacolo non è proprio sempre uno spettacolo.
Vederlo scendere dall’auto, venire incontro alla combriccola, snocciolarmi un sorriso «ci vediamo dopo», salutare da lontano le groupie, snobbare la pelliccia dai fiori mosci, è un tutt’uno.
Li guardo.
Lo guardo.
Ringrazio, ma passo.
Mi volto e faccio la corsa più veloce della mia vita.
Inizia a piovere e io corro.
Corro per sempre.
Salgo in treno dopo tre ore, arrivo a Trieste che è mattino.
Il giorno dopo prendo in mano un foglio di carta e scrivo, scrivo come un matto, come non ci fosse un domani.
Poi butto tutto.
E scrivo il mio primo racconto.
Si chiama l’Alba del Parco. Ha vinto un piccolo premio a Torino, pochi anni più tardi. Bel ricordo.
Sto ancora ringraziando Mister X, la triade strafatta, la pelliccia e il resto del circo di trent’anni fa, quando ancora scrivevo canzoni.
Perché se non fosse stato per loro, forse oggi non avrei un’isola di parole da cui rileggere il mondo.