Le sedie, ci siamo tirati. Le sedie!
Sai quando uno ti sta così antipatico… Uno di quelli che sa tutto lui… Quelli così perfettini e sicuri di sé, che un po’ quasi li invidieresti, se non fosse che già sai come l’invidia sia roba da sfigati cotti. Sai uno di quelli che assomiglia a Michael J. Fox nella serie Casa Keaton? Ecco, uno così. Che ti arriva in classe con due quotidiani la mattina, che sa tutto di attualità, che conosce i nomi di tutti i politici locali, nazionali, internazionali. Insomma, con uno così, cosa fai quando ci litighi? Gli tiri le sedie.
A fine lezione ci mettemmo a urlare, lui da una parte della classe, io dall’altra. Quando volò la prima sedia, i compagni abbandonarono ancora più velocemente del solito l’aula e rimanemmo lui e io, tra lanci e urla. Avevo 14 anni.
Non ricordo come andò nei giorni seguenti, so che di lì a poco finimmo in banco insieme.
Gli presentai i miei amici, lui i suoi. Eravamo sempre insieme, a scuola, il pomeriggio, in vacanza. Verso i sedici lo convinsi a provaci con una di prima e visto che non si decideva, gli dissi che se non lo avesse fatto entro fine lezione, lo avrei fatto io il giorno dopo. Si fece avanti, e fu il primo del nostro gruppetto ad avere una morosa. Una morosa vera! Disse pochi anni più tardi: «Non so con chi mi sposerò, ma so chi saranno gli amici che avrò accanto.»
Aveva ragione.
A 17 insieme a un altro amico mi seguì di nascosto, mentre facevo un giro in bici con una tipa conosciuta in palestra. Non mi accorsi di loro, nemmeno quando ci fermammo a chiacchierare. Quando io le dissi «certo che sei un po’ laconica» e le si offese rispondendo «certe parole le dici a tua sorella» mollandomi lì in via Terza Armata, spuntarono fuori quei due da dietro un cassonetto e iniziarono a prendermi in giro per gli anni a venire. Gli amici.
Dopo la matura, trascorremmo l’estate assieme, in media dalle 8 del mattino alle 2 di notte. Avevamo sempre tanto di cui parlare. Per il primo anno di università vivemmo assieme a Trieste. Lui sapeva cucinare le orecchiette al salmone, io me la cavavo con i secondi. Ci sarebbe bastata a vita, per fortuna dopo i primi mesi conoscemmo le ragazze dell’appartamento di sopra e la nostra alimentazione fu salva.
Tendenzialmente facevamo i cretini.
E devo dire, ci riusciva con un certo stile. Facevamo molti scherzi, un po’ a tutti. Poco prima di sposarmi, trascorremmo una settimana da scapoli al mare con altri amici. Una sera, mentre passeggiavamo, ci fermammo da una ragazza che faceva tatuaggi: «Il mio amico vorrebbe un tatuaggio», dissi, «ma che non si veda troppo, sa, tra due settimane mi deve sposare.» Lei ci guardò perplessa, sorridendo maliziosa.
«No, cosa ha capito? No, no, lui deve celebrare le nozze.»
«Ah, lui prete!»�«No, non è un prete, è un sindaco.»
In effetti la persona con cui mi ero lanciato le sedie, celebrò il mio matrimonio.
Penso che se non ci fosse stato, certi scambi culturali, stimoli a capire, cercare, avere materiale per rispondere per le rime, non li avrei avuti. Perché gli amici, anche inconsapevolmente, tengono desti.
Vivi.
Per il solo fatto di esistere.
Anche oggi, che ci sentiamo un po’ più di rado, sappiamo benissimo entrambi di poter contare ciascuno sull’altro. E son passati, quanti, Miki? Trentacinque anni?
Gli amici
