Il mio specchio ha un problema: mente.
Penso dipenda molto da come è stato trattato negli ultimi anni. Tutto è iniziato nel 1986, quando ascoltavo Edie Brickell, con un mangianastri collegato alla luce del bagno. Lo specchio si era abituato subito a quegli incontri mattutini, fatti di sguardi intensi, maledettissimi punti neri, denti ribelli ed efelidi inopportune. E il ciuffo? E il gel? E tutti e sei quei peli della barba da curare? Lo specchio si era subito sentito parte integrante della mia vita.
Poi il decadimento del ruolo. Lustri di solitudine, abbandonato e sputacchiato di dentifricio, malconcio sostenitore di sbarbamenti frettolosi, di sorrisi da fili interdentali e rapidi incontri con cravatte mal annodate. Si è sentito utile in alcuni momenti di intimità (per dettagli leggersi le pubblicazioni postume), o quando facevo danzare le bimbe neonate al ritmo degli Aerosmith.
Per giungere poi all’oblio.
Mente per sofferenza, mente per abbandono, lo specchio.
Perché il sembiante è sempre stato un conflitto da affrontare. Ho scoperto che sembiante deriva da sembrare (sai lo sforzo) e che sembrare, similare, da sim-lare, come un Lare (una di quelle divinità che i romani adoravano nel focolare domestico). Così mi vien da pensare che questa cosa di guardarsi allo specchio sia legata al sembiante, al guardarsi in adorazione quasi divina, con buona pace di Narciso e Freud. Mi è sempre sembrata a metà strada, tra il sano e il patologico.
Lo specchio è un border line per definizione.
Siamo in un’epoca di selfie, di autoscatti, di dipendenza dall’immagine propria e altrui. E la comunicazione digitale lo esaspera. Fino al paradosso, al selfie dal volto mascherato.
Come vuoi che si senta uno specchio, ormai superato da uno smartphone qualunque?
Probabilmente uno specchio è molto di più. Nel suo essere simbolico, più che pratico. Lo specchio delle mie scelte, dei miei infiniti errori, dei sogni che mi ostino a voler realizzare. Si parla di specchio dell’anima, dello specchio d’acqua, dello specchio di Dio.
Varrebbe la pena dirglielo: «ehi, specchio, senti, volevo dirti che per me sei un po’ come un papà; spesso conti più nell’idea di ciò che sei, che in quello che fai.»
Magari mentirebbe meno.