Il dirigibile Good Year

Sono un fifone. Era il pensiero che mi accompagnava quando dovevo scavalcare la rete del campo di calcio assieme ai compagni di classe, per la sfida tra le due quinte. Avevo dieci anni e non ero per niente tranquillo prima ancora di salire. Il più bullo della scuola si arrampica, la supera e atterra dall’altra parte. Lo guardo e penso “ma non c’è un modo più intelligente per andare sull’erba?” Mi allaccio una scarpa, sistemo la maglia, rivolto i calzini, mi pettino. Non so più che altro fare per prendere tempo. Il cielo merita, nuvolette bianche, due giorni fa è passato il dirigibile della GoodYear, quello grigio. Se solo arrivasse, atterrasse sul piazzale e mi dicessero: «ti diamo noi un passaggio, vieni su!»
Niente dirigibile. Solo uno che urla dall’altra parte della rete «Sei l’ultimo! Cos’hai? Paura?»
Funzionava sempre. Quando mi davano del fifone ero peggio del McFly di Ritorno al Futuro: facevo. Male, controvoglia, agitato, ma facevo. 
Quindi mi arrampico, arrivo in cima, mi graffio tutto, prima una gamba, poi… no, l’altra non ha nessuna intenzione di seguirla. Scivolo e resto appeso come una gallina a testa in giù. Un giorno mi ritornerà utile per una novella sul Natale, ma in quel momento non ci sono storie, c’è solo uno che ride, un altro che bestemmia perché gli faccio perder tempo, il terzo che da consigli. Ascolto il terzo. Mi giro, mi volto e non so bene come, arrivo a terra. Da lì in poi stabilirò di soffrire di una strana forma di vertigine da strizza acuta. 
Giochiamo. A me il calcio non è mai piaciuto. Lo capisco, ma non mi diverte. Il basket sì, il calcio no. Quindi finisco in difesa. Abbiamo una ventina di attaccanti, uno al centro e tre scarti in difesa. Mettono Mauro in porta, non perché sappia parare, o sia alto, ma fa dei tuffi bellissimi. 
Merita guardarlo. Sembra uno dei fumetti. E per sicurezza, lui quando salta fa gli stessi rumori. Prima che arrivi palla, imita anche il rumore del calcio sul pallone, il fischio dell’effetto, l’urlo dello stadio. Vuoto, nel nostro caso, uno stadio poco incoraggiante. La partita incalza. Io mi annoio. Cosa vuoi che mi metta a inseguire uno che arriva arrabbiato con un pallone tra i piedi: sto ascoltando Marco che fa la telecronaca! «Marco, vai tu». Marco è l’altro difensore. Marco va. Marco è un buono, uno che chiede se gli danno la palla. E poi è impegnato nella telecronaca. Saltato anche Marco. Sta per arrivare davanti alla porta. Si coordina. Mauro è pronto a fare il rumorista.
Fischio improvviso. 
Non è l’arbitro. Non c’è un arbitro, quindi non può essere lui. È il guardiano del palazzetto sportivo. Ha sequestrato le nostre bici e ha pure un cane. Tutti stesi a terra, faccia radente al suolo, pensando di potersi nascondere tra i fili di un’erba perfetta, appena rasata.
Dirigibile grigio, dove sei?
Discutiamo a distanza. Il centro campo si sente chiamato in causa. Il cattivo di turno ci intima di uscire. Ci vuole bucare le gomme? Chi l’ha detto? Vuole solo che usciamo. Ma non aprirà il portone. 
No! Scavalcare di nuovo, no! 
Resto qui, piuttosto, a osservare l’erba. 
Tra l’altro, non per dire, ma c’è una margherita che sta spuntando. Altro che rasata di fresco.
Davanti infuriano le discussioni. Io nelle retrovie. Mauro striscia vicino, imitando i suoni e i gesti dei soldati in mimetica. È già escoriato, anche se non ha ancora parato niente.
«Cosa facciamo? Io volevo fare i tuffi. Mi sono allenato!»
«Non so, Mauro, non so. Hai visto la margherita? Ci prenderà le bici. Le sentirò dai miei.»
Un autonominato capobranco si avvicina alla rete, tratta con il guardiano. Torna trionfante: possiamo tornare a casa senza che ci porti in prigione. Non bucherà le ruote e per questa volta non chiamerà i carabinieri. Il capobranco è il nostro nuovo eroe. Non c’è tempo per gioire. C’è una rete che devo risalire.
Ho imparato che sono un fifone. E se lo so, allora devo sempre affrontare le mie paure. Quindi parto a razzo verso la rete e inizio ad arrampicarmi. Sembra altissima, saranno quattro metri, a me sembrano almeno dieci. Arriva un altro urlo quando sono in cima. Hanno aperto il portone. 
Tutti mi ridono. 
Io no. 
Scendo. Li raggiungo simulando un’aria fiera. Maledetta rete. Recupero la bici, sguardo basso davanti al guardiano. Altro urlo. Questa volta verso il campo. Ne è rimasto indietro uno. 
«E quello?»
Quello è Mauro, sta lanciandosi da una parte all’altra della porta per una partita che vede solo lui. 
Vado a recuperarlo, ci mettiamo a parlare, mi racconta di una battaglia spaziale, mentre ritorno con la fantasia a quanto sarebbe stato bello farsi dare un passaggio dal dirigibile.

Mostra meno

Privacy Policy Cookie Policy Termini e Condizioni